lunedì 15 agosto 2011

I miei "fidanzati" bianchi: Marco


È il primo uomo bianco che ho conosciuto in Italia. Allora non parlavo bene l’italiano e lavoravo vicino all’IVECO. Lui mi veniva a trovare e mi dava dei soldi. Un giorno andiamo nel mio “postotraquillo” per scopare. Arriva un’altra macchina. Marco scende e pretende che la macchina se ne vada. L’altro gli chiede perché. Marco si incazza e dal baule prende una pistola e minaccia l’altro conducente che spaventato se ne va. Anch’io mi ero spaventata e dal quel giorno in poi ho cominciato a vedere Marco sotto un’altra luce. Pensa, non rideva mai.
Ad un certo punto avevo proprio paura di lui e così quando veniva per trovarmi io scappavo, quel tanto che una volta lui mi prende e mi fa: “perché mi scappi, dopo tutti i soldi che ti ho dato?, sai dove li prendo questi soldi per te?” e così mi ha raccontato dove li prendeva: durante la notte andava a rompere le macchinette nei servizi di benzina. In pratica andava a rubare. Al che a me aumentava la paura.
        Dopo aver avuto l’incidente all’Iveco la mia magnaccia mi fece andare a San Giorgio e un giorno vedo arrivare da lontano la macchina di Marco e io mi nascondo subito.
        Dopo alcuni mesi è tornato di nuovo e mi ha trovato: “pensi che io non sappia dove stai?” e ha iniziato a picchiarmi e a minacciarmi con la pistola. Io avevo tantissima paura. Però ho avuto la prontezza di dirgli che avevo preso il suo numero di targa e che lo avrei denunciato. Non l’ho più visto.

I clienti


Marco: ti ricordi la tua prima esperienza con uomo, ovviamente da prostituta..

Jocelyn: se me la ricordo Marco, come fossi oggi, la mia prima esperienza. Sono insieme alla mia magnaccia, Elisabeth, che lavorava con me all’Iveco. Mi ritrovo con un uomo avanti con l’età, sporco e puzzolente con un cazzo lungo e storto per 15.000 Lire (erano gli ultimi mesi di decorrenza delle Lire), quel tanto che un po’ spaventata e un po’ schifata scendo dalla macchina e me ne vado sotto gli occhi increduli del cliente.
        Elisabeth che mi teneva d’occhio mi vede scendere troppo presto dalla macchina e mi fa: “perché sei scesa? Non ti deve interessare di come sono i clienti. Sono clienti e basta. Sali di nuovo”. E io: “no, io non voglio” e lei mi ha dato uno schiaffo e poi è andata lei con quel cliente. Una volta fatto mi è venuta vicina e urlava come una strega e io piangevo.
Fatto sta che un po’ più tardi arriva un suo cliente. Elisabeth sale in macchina e poco dopo il cliente chiede di andare con tutte e due. Salgo in macchina e assisto per la prima volta al “rito” di un rapporto sessuale con un cliente. Vedo Elisabeth che mette il “guanto” sul cazzo del cliente che si è abbassato i pantaloni. Abbassa la testa e lo prende in bocca andando su e giù con la propria testa.
Ad un certo punto vedo che il cliente parla con Elisabeth dopo di che lei si toglie le mutandine e gli monta sopra e comincia a cavalcarlo. Io ero sul sedile di dietro e osservavo la scena attonita, fino a quando il cliente mi fa segno di accarezzargli il petto, cosa che faccio in maniera automatica pensando… “che zoccola è Elisabeth!”. La quale intanto che scopava il cliente, mi diceva: “hai visto come si fa, vedi”. Così ho capito che era stata lei a volermi in macchina con il suo cliente.
Ma un giorno dopo l’altro la mia naturale avversione verso il lavoro che avevo “scelto” di fare si affievolisce e devo trovare le necessarie mediazioni con me stessa, con i miei principi, con la mia moralità. Per esempio dò ovviamente la mia “bocca e la mia figa” ma non mi faccio mettere le mani dentro la figa, così come non me la faccio leccare, così come escludo in maniera assoluta i rapporti anali. Si tratta appunto di clienti!

Marco: mi pare di capire che tu sia (come gran parte delle ragazze nere che conosco) una “puttana, però…” nel senso che hai un sacco di riserve e inibizioni nella professione che hai “scelto” e che le “puttane, però…” non si fanno i soldi. La mia opinione è che una ragazza bella, intelligente come te, se ha deciso di usare il proprio corpo come strumento di piacere per gli uomini, occorre vada fino in fondo. Specie se l’obiettivo è quello che si dichiara: sono in Italia per fare soldi! Occorre che tu lasci la strada e i suoi poveracci e devi puntare in alto. Devi farti un altro giro. Ma cosa vai fare quasi tutti i sabati al Miami o al Mercury pieno com’è dei tuoi connazionali senza un € come te. Devi cambiare. Andare in altri locali dove vanno i bianchi, danarosi. Devi lavorare in casa, così come fanno le più avvertite. E farti pagare, salato. Ma per guadagnare tanti soldi occorre mettere al bando ogni “pruderie”, traduco: se uno vuole il tuo culo, ebbene sì, c’è ad un determinato prezzo!.

Jocelyn: vai fare in culo, Marco! - ma come, tu sei il mio migliore amico, e mi stai proponendo queste schifezze!. Caro mio, nel fare questo mestiere (di merda) io mi sono data delle regole – alcune cose di me i clienti non le avranno mai. Sono mie e al massimo le voglio riservare al mio amore (almeno, quando verrà)….

Marco: la mia era una provocazione… capisci…

Jocelyn: ah.. bene, comunque mi chiedono di andare in albergo (pagando di più) e così colgo l’occasione di usare come “documento” la domanda di “permesso per asilo politico” che ho presentato alla questura sulla base di una vicenda che ho raccontato loro. In pratica ho detto che sono in Italia perché sono sfuggita quasi a morte sicura in occasione degli scontri tra cristiani e mussulmani avvenuti a Kano qualche mese prima del mio espatrio.
Più raramente porto i miei clienti nella mia casa, questo per la presenza di altre persone nella mia casa, ma anche per rimarcare che nella mia casa alcuni possono venire, altri nò.
A pensarci bene il lavoro di prostituta che faccio è l’esatto contrario di ciò che aspiravo quando ero in Africa e andavo a scuola. Io come ti ho già detto, andavo molto bene negli studi e mi piaceva andare a scuola. La mia aspirazione era di diventare avvocato.

Marco: nelle mie frequentazioni con voi ragazze nere ho notato un certo uso strumentale degli uomini che voi conoscete e anche con coloro i quali avete più confidenza, che vi sono più vicini, che vi sono amici..

Jocelyn: forse hai ragione Marco, il lavoro di prostituta porta chi lo fa a maturare un atteggiamento e un comportamento del tutto strumentale con gli uomini, nel senso che li tratto “pan per focaccia”.
Loro hanno di me una visione di un “buco” che ovviamente con un po’ di soldi va riempito, quindi non sono più una persona, divento una “cosa” e io per altro verso tratto i clienti per delle “cose” (provviste ovviamente di soldi). Quindi questo atteggiamento mi porta a non voler per niente rapporti affettuosi o di sincera e disinteressata amicizia con i clienti per cui rifiuto ogni proposta di fidanzamento, salvo con coloro i quali si instaura un certo feeling.
Non so quale possa essere la conseguenza di questo mio atteggiamento e di questo mio comportamento sulla mia personalità. Su come mi possa modificare in negativo, specie nel rapporto con gli uomini. Perché prima o dopo dovrà pur finire la vita che attualmente conduco e dovrò pur pensare di costruirmi dei rapporti di relazione e amorosi più naturali.

Marco: hai voglia di parlarmi delle esperienze sessuali che ti hanno coinvolto nel lavoro di prostituta..

Jocelyn: il lavoro di prostituta mi ha portato a conoscere una “galleria” di uomini con i loro vizi e alcune volte con le loro perversioni che mai avrei immaginato. Alcuni episodi:

·     ho avuto l’occasione di fare sesso a tre, con un cliente e un transessuale: che schifo, pensavo la prima volta. Come fa un uomo a prenderlo in bocca ad un altro uomo…
·        sarà come mi dici tu che per parecchi uomini il corpo non corrisponde a ciò che essi si sentono dentro: delle donne, però a me la cosa continua a non quadrare;
·        ovvero come quella volta che un cliente voleva che io gli orinassi in bocca mentre lui si masturbava;
·    come quell’altra che un cliente voleva picchiarmi sul culo e siccome io non gridavo abbastanza lui insisteva con maggior vigore fino a quando io incazzata gli ho rivolto a lui le stesse attenzioni;
·         come quelli (e non sono pochi) che mentre si fanno una sega mi leccano gli stivali;
·         come quelli che vogliono che li masturbi con i piedi;
·      ci sono quelli a cui piace il “pompino con i denti”, cioè che pretendono di essere morsi sulla punta dell’uccello;

Marco: perché usi questo linguaggio. Mi pare sia un po’ troppo esplicito…

Jocelyn: senti Marco, attualmente io faccio questa vita e non un’altra ed è bene parlare senza infingimenti, chiaro. Continuo..
·        ovvero quelli che intanto che gli fai un pompino godono se gli metti un dito nel culo;
·        come quella volta che sono alla “pecorina” (avvisando in anticipo la mia avversione per i rapporti anali), il cliente in questione, forse per sbaglio o per cattiveria tenta di mettermelo nel culo, al che io strillo dal dolore e mi giro incazzata dandogli una serie di schiaffoni e insultandolo me ne vado.

Quel tanto che sono arrivata a pensare che i bianchi siano tutti come i miei clienti. Speriamo che non sia così. E infatti ho conosciuto pure un’altra galleria di personaggi tra i miei clienti, diciamo più interessanti.

Il lavoro da prostituta

Marco: parlami ora delle tue prime peregrinazioni da prostituta

Jocelyn: ad un certo punto Elisabeth mi fa cambiare lavoro, quello durante la notte. Mi ha fatto smettere di andare all’Iveco dove non lavoravo abbastanza: 20 o 50 € per notte.
Vado a San Giorgio Canavese. Il primo giorno non ho lavorato, il secondo e poi via via gli altri ho iniziato a lavorare molto, ad avere molti clienti ai quali dicevo di avere 16 anni. Loro mi rispondevano: “oh! la mia bambina”.
Io sul momento ero contenta del fatto che lavoravo, perché pensavo che tutto ciò servisse a vivere con un po’ più di tranquillità in casa con Elisabeth. Invece niente. Casino. E ancora casino.

Marco: quanto tempo sei rimasta con questa tua magnaccia, e come è finita….

Jocelyn: circa un anno, nel quale sono riuscita a restituire più di 30.000 €. Avevo avuto la fortuna di trovare un posto a San Giorgio dove lavoravo molto. Allora ero molto più magra di adesso e tutti i clienti mi dicevano che avevo dei bei occhi e sono provvista di due bei seni, e ho un sorriso molto accattivante, almeno così mi dicono i miei clienti.
        Come è finita. È finita con questo ultimo episodio. Sapevo che una mia sorella, Evelyn, stava male ma non sapevo che fosse grave. Sono appena arrivata a San Giorgio, mi sto facendo il trucco, quando mi arriva una telefonata da Elisabeth che mi dice che mia sorella Evelyn è morta e aggiunge: “questa è la fine tua se non mi darai i miei soldi”. Sono caduta disperata per terra e mi strappavo i vestiti. Le amiche che lavoravano con me mi vennero vicine e una, Jessica, che era una ragazza tosta, si incazzò di brutto e mi disse che sarebbe venuta a casa mia a parlare con Elisabeth.
Avevo già conosciuto Massimo (ne parleremo più avanti) ed era venuto pure lui sul mio posto di lavoro, in quanto la sua casa era abbastanza vicina. Era stato chiamato da una delle ragazze. Era incazzato anche lui e voleva venire alla mia casa. Fatto sta che venne anche una ambulanza, gli infermieri volevano portarmi in ospedale ma io rifiutai e allora mi diedero dell’acqua e una pastiglia per tenermi tranquilla.
        Era fatta. Non ce la facevo più. Decisi di tornare a casa per prendere le mie poche robe e andarmene. Era quasi un anno che stavo in quella sorta di inferno. A casa c’era pure il ragazzo di Elisabeth, un bianco di nome Gioele. Io urlavo totalmente fuori di me, lei mi implorava di non urlare per non fare sapere a questo suo ragazzo che era la mia magnaccia. “Perché non mi hai detto di mia sorella Evelyn, quando ero in casa?” gli dicevo, e lei, “perché se no ti saresti messa a urlare e sarebbero venuti i carabinieri…”
        Fatto sta che mi trasferisco per un breve periodo nella casa di Deborah fino a quando mi trovo una casa in C.so Orbassano e Massimo (il mio amico poliziotto) mi aiuta anche con un po’ di soldi.
        Siccome ho dovuto andare a prendere delle robe nella casa di Elisabeth, una volta arrivata questa mi diceva di ritornare, e io: “non mi vedrai mai più, l’hai voluto tu, con il tuo comportamento, con la tua cattiveria”. Comunque ho continuato a dargli i soldi fino a finire il mio debito.

I problemi


Marco: parliamo ora dei vari problemi che ha una ragazza come te, da poco arrivata in Italia e che fa la prostituta…

Jocelyn: l’affitto della casa dove abitavo con Elisabeth costava 350 € e io ne pagavo 250 più altri, dai 50 ai 100 € ogni sabato per fare la spesa, più la luce, ecc. e in più la mazzata finale quando mi ha detto che io per tornare libera gli dovevo 45.000 €. Al che io gli ho detto che non erano quelli i patti che io sapevo quando ero partita da Benin City. “Non è vero, tu lo sapevi”, mi diceva “e comunque questi sono i soldi che tu mi devi, al massimo se sei puntuale ti posso fare uno sconto di 5.000 €. Anch’io ho dovuto pagare”, mi diceva come un cane arrabbiato. Aveva avuto un’altra ragazza di nome Deborah la quale però se ne era andata perché Elisabeth la trattava male. Io l’ho conosciuta perché ha lavorato per un po’ all’Iveco.
        All’Iveco mi è capitato un incidente. Sentivo un rumore di una macchina che non andava. Ho preso il sacchetto dove tenevo i “guanti” e i fazzoletti di carta e ho fatto per attraversare la strada… e mi sono svegliata in ospedale.
        Che è successo, chiedevo al dottore. Avevo ancora la faccia truccata e vestita da prostituta e mi vergognavo. Sono stata in Ospedale un paio di giorni, meno male che i medici non hanno chiamato la polizia, Elisabeth mi stava cercando convinta che fossi scappata. Al mio ritorno a casa si è dovuta convincere del contrario perché portavo ancora i segni dell’incidente che mi era occorso con il camion che mi aveva investita, sulle gambe e su una mano. Io l’unico ricordo che ho è quello che, sull’ambulanza, sento delle voci che mi dicono: “come ti chiami… auguri..”. quel tanto che quando poi sono ritornata all’Iveco ho visto la macchina che aveva fatto l’incidente con il camion, ancora tutta schiacciata. In pratica ero stata coinvolta in un incidente tra una macchina e un camion.

Marco: ma tu avevi la possibilità di uscire di casa nei pur brevi periodi in cui non eri al lavoro…

Jocelyn: macchè!, lei non voleva che io uscissi, non voleva che io conoscessi altre persone. Non mi comperava mai niente, nessun vestito, niente… d’altra parte non avevo neanche il tempo.
Ti faccio la cronistoria di una giornata tipo, allora: verso le nove di sera occorre prepararsi, prendere il pullman che porta vicino all’Iveco dove rimango fino a quasi alle cinque del mattino. Quindi arrivo a casa dove mi corico per più di un’oretta e quindi devo andare a prendere il “pullman blu” che mi porta a San Giorgio, dove rimango fino a sera – e via da capo.
Ero sempre piena di sonno. Cosa faceva Elisabeth: metteva il mangiare che lei cucinava in frigorifero, per cui nel breve tempo che io ero in casa non c’era il tempo per riscaldarlo.
Mangiavo pochissimo, meno male che vicino alla stazione dove prendevo il pullman c’era sempre una nera come me che veniva per vendere i contenitori di riso e così io mi sfamavo. Elisabeth mi diceva che se no ingrassavo e allora avrei perso i clienti. Di fronte alle mie richieste: “ci sarà tempo, mi diceva. Adesso pensa a lavorare e a guadagnare soldi”.
Dovevo fare tutto di nascosto, nel tempo che andavo a lavorare, esempio: telefonare alla mia famiglia in Africa, fare un giro per il mercato, ecc. Una volta ho spedito 50 € alla mia famiglia e ho conservato il tagliando di spedizione. Fatto sta che a casa Elisabeth non me lo vede, apriti cielo. Ha iniziato un casino che per togliermelo ho dovuto raccontargli che non era per me, ma per una mia amica che lavorava vicino a me a San Giorgio. Cosa ha fatto lei? È venuta a San Giorgio anche lei e ha piantato un casino del demonio con questa ragazza.
Ti racconto un ulteriore episodio per farti capire come mi trattava. Sai che noi africane mangiamo con le mani, bene, pretendeva che io mi inginocchiassi davanti a lei e le porgessi l’acqua per lavarsi le mani. Quel tanto che un giorno è venuta a trovarmi Deborah (la ragazza che era stata con Elisabeth prima di me e che se ne era andata). In casa mi aveva visto fare il “rito” dell’acqua con Elisabeth. Mi aveva preso in disparte e incazzata mi aveva detto che lei si era rifiutata di farlo, che non lo aveva mai fatto neanche per suo padre, e che non era giusto che io continuassi.
        Elisabeth era una ragazza particolarmente cattiva. Se tornavo senza soldi era capace di non farmi entrare in casa, come quel giorno che sul lavoro mi hanno rubato la borsa e quindi sono tornata a casa senza soldi e senza chiavi, l’ho chiamata da fuori la porta per farmi entrare e lei: “vai a recuperare le chiavi” così io ho dovuto dormire nell’androne delle scale. Faceva un freddo boia. Era di Dicembre ed aveva nevicato.
        Ovvero come quel giorno che arrivo a casa con un bel gruzzolo di soldi guadagnati: 500 €. Ero particolarmente contenta perché pensavo che Elisabeth, dopo averli dati a lei, mi lasciasse tranquilla. Invece niente. Avevo una gonna da lavare. Vado in bagno, erano circa le nove di sera e dovevo prepararmi per andare al lavoro. Lei esce dalla camera e comincia ad inveire contro di me, dicendomi che non dovevo fare rumore perché se no i vicini avrebbero protestato con il rischio per lei di perdere la casa. Al che io esasperata mi incazzo e iniziamo a litigare. Alla fine della fiera viene fuori che abbiamo litigato tutta la notte fino alle quattro del mattino.
        Ed è da questo episodio in poi che ho cominciato a prendere più coraggio con Elisabeth. Non volevo più essere succube di lei. Quel tanto che in altra occasione gli dico pure che non ho nessuna paura di lei e di ciò che lei possa fare alla mia famiglia.
Ho saputo poi dopo, da mio padre, che un giorno ha avuto la visita di alcune persone che intendevano minacciarlo, ma lui mi ha detto che ad un certo punto della discussione ha detto loro della sua professione di poliziotto e ha fatto vedere una sorta di “machete” che teneva in casa. Al che i suoi interlocutori se ne sono andati con più mestizia di quanto erano arrivati e non si sono più fatti rivedere.

In Italia

Marco: racconta delle prime sensazioni di quando arrivi in Italia, a Torino e con chi ti incontri…

Jocelyn: a ottobre del 2001 sono a Torino a Porta Nuova. Sono partita che ero triste, con le risate delle due ragazze nere di Parigi, nelle mie orecchie. Ho fatto un brutto viaggio e sono scesa alla stazione di pessimo umore. A Torino ho trovato un clima freddo, al che il mio umore è andato ancora più giù.
        Alla stazione c’era una ragazza, bella e affascinante, ad aspettarmi. Me ne sono accorta perché quasi subito mi si è avvicinata: “sei Jocelyn”. E io: “no, non sono Jocelyn”. E la vedevo che telefonava dicendo: “sono alla stazione, al binario dove è arrivato il treno da Parigi, però la ragazza non c’è”. E io sono stata lì quasi mezz’ora, ho mangiato un panino, pensavo: “ma questa è una prostituta” perché la vedevo pettinata e vestita come avevo visto le due ragazze di Parigi. “Qui finisce male per me” e dentro  di me piangevo. Poi ho pensato che ero sola, non sapevo dove andare, avevo pochi soldi per le mani, per cui… alla fine ho avvicinato io la ragazza e le ho detto che ero io la ragazza che lei cercava, Jocelyn.
        Immediatamente la ragazza mi chiede di dargli il mio passaporto. Al che, io, abbastanza contrariata gli dico di aspettare almeno che siamo a casa. Alla fine mi trovai senza nessun documento. Così come lo sono ancora adesso salvo che per la domanda di “asilo politico” che ho presentato in questura. Ma ne parleremo dopo.

Marco: ti ricordi come si chiamava quella ragazza, quanti anni aveva, da quando era in Italia…

Jocelyn: si chiamava Elisabeth, aveva 25 anni ed era in Italia da 5 anni. Il giorno stesso dopo aver scaricato le valige nella casa dove abitava, senza neanche farmi riposare, mi ha portato a fare i miei capelli. Io ero stanca morta. Il giorno successivo mi ha riportato nella zona vicino alla stazione di Porta Nuova dicendomi che dovevamo andare in un negozio. Io pensavo che fosse il negozio di parrucchiere, almeno così io speravo.
        Era invece un negozio di abbigliamento. Io chiedo a lei se il negozio è suo. Lei mi risponde che no. Siamo li, mi dice lei, per comperare i vestiti per il mio lavoro.
E lì mi è cascato il mondo in testa: ha cominciato a prendere dalle cassette dei vestitini tutti sexi, degli stivali con dei tacchi altissimi, (per me che non ho mai portato i tacchi!), il trucco, ecc.. e io che piangevo dentro prima e poi a dirotto quando siamo arrivati a casa dove lei abitava, all’inizio di Corso Palermo.
        Lei mi dice: “non te la prendere, e così per tutte la prima volta”. Alla sera è venuto un suo amico con una macchina e ci ha portato tutte e due sul lavoro. Vicino ad una grande fabbrica di cui si intravedeva il nome: Iveco. Pioveva e io ero mezza nuda. Con le tette quasi fuori e un giubottino da far ridere sopra una minigonna che più mini non si può!. Con un freddo cane e un sonno che non mi reggevo in piedi. Piangevo. Era Novembre. C’era un fuoco che le ragazze presenti avevano acceso, però a me non bastava.
        Che vita, Marco, non dormivo più salvo che per alcune ore al mattino, in quanto lavoravo durante il giorno, fuori Torino dove Elisabeth mi aveva portato in un posto dove non c’era lavoro perché in quel posto era stata da poco uccisa una ragazza di colore e la polizia non voleva nessuna.
Sulla base delle sue istruzioni: “quando vedi la Polizia o i Carabinieri, tu scappa”, io quella mattina sono scappata ben cinque volte, alla sesta volta non sono scappata più e alla Polizia ho detto piangendo: “portami al mio paese” e loro: “ma quale paese, torna a casa tua, qui non è possibile lavorare, se vuoi tornare al tuo paese, compra il ticket e te ne vai”, e io: “e chi mi da i soldi?”. Il tutto evidentemente in inglese con un poliziotto che lo parlava a stento.
E alla notte all’Iveco. Quando arrivavo a casa Elisabeth mi spogliava, mi prendeva tutti i soldi. Ho capito così che era lei la mia “magnaccia”.
Poi una volta lei ha portato a casa due ragazze più vecchie di me. Io avevo molta paura. Mi hanno fatto un piccolo taglio nella mano per prendermi del sangue, lo hanno messo nel piccolo contenitore del trucco, mi hanno fatto tagliare un po’ di peli della figa e delle ascelle e hanno messo il tutto in un contenitore, quindi mi hanno detto che alle prossime mestruazioni di raccogliere un po’ di sangue e di avvisarle. Sono quindi ritornate e avevano con se una gallina a cui hanno tagliato la testa per prendergli il sangue che usciva dal collo, poi hanno bevuto del gin e me lo hanno spruzzato in viso insultandomi e dicendomi che se non avessi pagato o avessi voluto andare dalla Polizia, sarebbe finita male per me e per la mia famiglia.


Marco: in pratica ti hanno fatto un voodoo… ma tu ci credevi…

Jocelyn: ci credevo e non ci credevo… mi avevano fatto tanta paura. Avevano minacciato di fare cose bruttissime alla mia famiglia.
E io non riuscivo a dire a mia madre ne a mio padre che facevo la prostituta. Sarebbe come spezzare a loro il loro cuore. Al telefono con mia madre riuscivo solo a dire che volevo tornare. Mia madre continuava a dirmi che se non mi trovavo bene era bene che io tornassi a casa.
Anche volendo non sarei riuscita a nascondere nessun soldo, in quanto quando arrivavo a casa Elisabeth mi rovistava dappertutto, anche nelle parti intime del mio corpo.
        Che vita, Marco. In pratica era una guerra continua.

L’ingaggio (per l’Italia)


Marco: raccontami ora il tuo “ingaggio” per l’Italia…

Jocelyn: tornata a casa mi sono accorta che le cose nella mia famiglia non andavano per niente bene. Mangiavamo una sola volta al giorno. Un grande casino. Una volta mi è capitato di andare da una mia amica e lì si parlava dei viaggi verso l’Europa e che cosa ci aspettava: fare le prostitute. A me la cosa non interessava, avevo imparato da mia sorella a fare i capelli, le treccine all’africana.
Un giorno torno a casa e trovo mio padre che mi dice che un suo amico ha la possibilità di farci arrivare in Europa, basta che noi lo vogliamo. Gli chiedo: “a fare che cosa,” perché io avevo sentito del lavoro di prostituta e del fatto che i bianchi volevano che le ragazze facessero sesso con i cani – mio padre: “questo mio amico ha una figlia che ha un laboratorio di parruccheria e ha bisogno di lavoranti. Evidentemente per due anni bisognerà che lavori gratis per pagare il viaggio, i documenti, ecc.”. Invece era una grande bugia che hanno detto a mio padre.
La cosa rimaneva tra me e mio padre. Mia madre era all’oscuro della vicenda. Avevo 18 anni. Però prima di partire, in famiglia ne parlammo anche con mia madre, e ricordo che una mia sorella ci disse che lei non era d’accordo per questa mia partenza. E io a rassicurarla che non andavo a fare la prostituta.
C’era molta tristezza, specie in mia madre e pure nel resto della famiglia. Tieni conto che la sorella, quella morta, per due mesi era andata in Svizzera, ed era stata espulsa dopo solo due mesi, però ci aveva raccontato che non aveva fatto la prostituta. Io stessa non lo facevo certo a cuor leggero, perché mi rendevo benissimo conto quanto mi sarebbe mancata la mia famiglia.
Ad un certo punto, però, prendo la decisione e parto per Lagos, però non vado da mia sorella e da mio zio, bensì dalla sorella di questo amico di mio padre e resto lì un mese, dopo di che parto con il mio passaporto (che loro avevano fatto) verso il Ghana e precisamente ad Accra, la capitale, ancora per un mese presso il Domie Hotel.

Marco: tu sapevi quanti soldi di debito dovevi a chi ti aveva fatto venire in Europa…

Jocelyn: no, perché non si era parlato di soldi per me. Io sapevo che per un periodo, non breve, avrei dovuto lavorare gratis nel laboratorio di parruccheria. Un po’ come una “schiava”, però sarei stata in Europa.
        Era Ottobre del 2001. Parto per l’Europa, faccio scalo a Londra e arrivo a Parigi dove mi fermo per quasi un altro mese. A Parigi un ragazzo nero del Ghana mi viene a prendere all’aeroporto. Sono rimasta quasi sempre nella casa dove ero ospitata.
Un uomo del Ghana, abbastanza anziano, mi faceva la corte e io lo lasciavo fare perché così lui mi comperava vestiti, valige, ecc. E’ chiaro che mi voleva portare a letto ma a me non piaceva. Una volta ci ha pure tentato, infatti un giorno mi porta in macchina verso un palazzo molto bello, che però quando lo vedo da vicino mi accorgo che è un Hotel, e lì allora mi incazzo e torno in macchina. Ma pensa te. Aveva quasi l’età di mio padre!

Marco: che tipo di sensazioni hai provato in questo tuo primo mese in Europa, a Parigi poi che è una bellissima città…
 
Jocelyn: per quel poco che ho potuto vedere ero affascinata da tutto quello che vedevo, ero contenta e pensavo: “sono in Europa, mamma mia, che bello che è qui, posso vivere come i bianchi, posso fare le foto, mandarle al paese, ecc.”. La cosa che mi aveva colpito di più era l’ordine e la pulizia delle strade, la luce durante la notte, i negozi pieni di ogni ben di Dio, dai vestiti alla frutta, ad ogni sorta di cibo. Un po’ come le GRA (sono delle zone speciali dove abitano i bianchi e i neri ricchi) a Benin City. Un vero paradiso. Arrivavo a pensare di essere morta e di essere entrata in Paradiso!
        Pensavo appunto come dice la Bibbia che tra i bianchi in Europa tutti fossero uguali, non come in Africa che c’erano pochi ricchi, ricchissimi e tantissimi poveri, poverissimi.

Marco: ma non hai avuto modo di pensare che la cosa non fosse esattamente così…

Jocelyn: a dirti il vero un dubbio mi era venuto. Nella casa dove abitavo ogni mattina tornavano due ragazze nere come me e vedevo come erano vestite (da prostitute) e da dove tiravano fuori i soldi, dalle calze, dalle scarpe, ecc.
        Mi avevano invitato ad andare con loro al lavoro: “così ti fai un po’ di soldi”. E io tutta convinta gli rispondevo: “io non sono venuta per questo lavoro che fate voi, io devo andare a Torino, in Italia, a fare la parrucchiera”. E loro: “eh.. sì.., poi telefonaci da Torino e dimmi cosa farai” e ridevano.  

Il mondo di Jocelyn in Nigeria


Marco: vorrei ora che tu mi parlassi del tuo mondo in Nigeria, dei tuoi amici, amiche, della scuola, dei tuoi amori, del sesso, del divertimento…

Jocelyn: i miei amici erano quasi tutti delle femmine, poche. Mio padre finiva il lavoro verso le quattro del pomeriggio e voleva che a quell’ora tutti i figli (salvo quelli che lavoravano) fossero a casa con lui, se no era un po’ un casino. Non avevamo amici che per esempio ci venissero a trovare, non ci faceva uscire facilmente. Era un tipo molto severo. A casa voleva che tutti avessero un libro di scuola tra le mani. Io avevo solo due amiche, Adesuwa che però abitava lontano da casa mia e un’altra, Florence che invece abitava vicino alla nostra casa. Inoltre avevo un amico Osaro che era l’unico che mio padre voleva che venisse a trovarmi perché lo riteneva bravo e col quale quando veniva a casa mia insieme facevamo i compiti e leggevamo i libri di scuola. Però poi l’ho perso di vista quando siamo cresciuti, a differenza di Florence.
        Stiamo parlando di quando avevo 14, 15 anni. Devo dire che la mia vita di allora non era particolarmente divertente.

Marco: parlami della scuola…

Jocelyn: grosso modo il numero di studenti nella mia classe era di circa 30 persone. I professori erano quasi sempre presenti. La “primary school” si chiamava Uvi Primary School ed era solo per le femmine. Mentre alla “secondary school” ho avuto l’occasione di frequentare prima una scuola religiosa (cattolica) italiana: Santa Maria Goretti e poi Idia College – facevo anche un po’ di sport, correvo la corsa veloce: i 100 metri.

Marco: parlami ora dei tuoi primi amori, del divertimento…

Jocelyn: vuoi che ti parli del divertimento… ho detto prima che mio padre ci sorvegliava ed era molto severo, però verso la fine della secondaria allentò la sorveglianza. Alla fine della secondaria c’era uno che mi “filava”, si chiamava Orobosa. Un giorno tornavo a casa da una mia amica che aveva i miei soldi che dovevo usare per fare un esame, il GCE, quando lungo la strada trovo un gruppo di ragazzi e ragazze che conoscevo, una ragazza mi viene vicino e mi dice che uno di quei ragazzi vuole conoscermi. Io ero arrabbiata per via dei soldi che la mia amica non mi aveva dato e gli dico: “se lui vuole conoscermi sarà bene che venga lui da me”. Allora il tipo si è avvicinato e ha cominciato a parlare. Orobosa era un bel ragazzo. Ma sul momento io avevo altro per la testa.
        Volevo andare a Lagos a casa del fratello di mia madre per poter continuare gli studi, il mio obiettivo era: diventare avvocato. In famiglia le cose non andavano più molto bene. Mancavano i soldi per finire il mese.
Orobosa era un bel ragazzo. Mi piaceva. Però alla sua proposta di trovarci sul momento dissi di nò. Un giorno mentre andavo a casa di una mia amica, Lawrenta, per fargli i capelli lo trovo, non sapevo che lui abitava vicino a questa mia amica. Fatto sta che ad un certo punto ci vediamo e io scappo veloce verso la mia casa mentre lui mi corre dietro e mi raggiunge ridendo, inizia a parlare e poi mi invita a casa sua dove mi offre una Coca Cola. Io ero tutta contenta perché dalle mie parti non è di tutti i giorni bere la Coca Cola. E abbiamo iniziato a frequentarci. E così quel giorno non sono andata a fare i capelli alla mia amica Lawrenta.
Avevo quasi 18 anni. Era il mese di dicembre.
Cominciai a frequentare Orobosa. Una sera (era quasi notte) in un posto tranquillo mi chiese se gli davo un bacio. Io: “non ho mai baciato nessuno”, gli dissi. Lui non voleva credermi perché io ero una ragazza che andava vestita in maniera carina (utilizzavo i vestiti delle mie sorelle maggiori), quel tanto che la gente del mio quartiere pensava che io fossi già fidanzata. E così lo baciai.
Un giorno di festa Orobosa mi viene a trovare e mi porta ad una festa in casa di amici. Mi sono divertita molto. Poi ad un certo punto Orobosa mi ha portato in una camera e abbiamo fatto all’amore. Era la prima volta per me, ero un po’ triste perché avevo perso la mia verginità e al tempo stesso ho sentito male, così come per la seconda volta in altra occasione.

Marco: prima mi hai detto che volevi andare a Lagos per continuare la scuola…

Jocelyn: infatti, la mia relazione con Orobosa non fu poi così lunga, dopo non molti giorni partii per Lagos. Avevo l’indirizzo e al tempo stesso un po’ di paura di perdermi in quella città grandissima e piena di pericoli. L’indirizzo della casa di mio zio me lo aveva spedito una mia sorella che al momento abitava con lui per via degli studi, mio padre mi aveva dato solo i soldi per l’esame.
Il viaggio in pulmino durò due ore e mezza circa. Arrivai a Okoko, che è un quartiere di Lagos. Era di domenica, meno male che dal pulmino alla casa di mio zio dove abitava anche mia sorella, c’era un autobus che si fermava proprio davanti alla loro casa. Arrivai, ma non trovai nessuno in quanto loro erano in chiesa, era di Domenica. Come arriva mia sorella, sorpresa, mi chiese chi mi avesse portata fino a Lagos. “Da sola, ho l’indirizzo”, risposi.
Comunque mia sorella era molto contenta di vedermi perché era molto tempo che non ci vedevamo. Poi con mio zio avevo legato molto, in quanto lui mi voleva bene come ad una figlia. Nel periodo di mia permanenza a Lagos facevo GCE e JAMB due esami, uno per il diploma e l’altro per entrare all’università al primo livello.
        Durante la mia permanenza a Lagos (circa due anni) ci furono degli episodi di violenza con le armi, da parte di bande di uomini tra cui molti ragazzi che di notte andavano a rubare nelle case degli abitanti. Pensa che c’erano dei giorni che andavamo a scuola e vedevamo dei morti per terra.
 Intanto io sentivo la mancanza del mio Orobosa, specie il giorno di S. Valentino quando tutte le ragazze parlano del loro fidanzato, e allora cosa ho fatto: mi sono fatto una bella foto, l’ho messa su un calendario, l’ho data a mia sorella che tornava a Benin City per trovare la famiglia e gli ho detto di darla alla mia amica Florence perché a sua volta lei la recapitasse ad Orobosa.
Dopo qualche mese le bande di ladri una notte vennero nel nostro quartiere e hanno iniziato a sparare con le pistole. Erano, per fortuna nostra, nelle case di fronte alle nostre. Lo zio, mia sorella ed io, avevamo paura, per due motivi: primo per i soldi che aveva portato a casa quella sera mio zio. Erano parecchi, ma lui ci diceva che era pure disponibile a darli ai ladri basta che questi ci lasciassero stare e questo era il secondo motivo molto più serio in quanto lui temeva che i delinquenti ci usassero violenza.
Al mattino presto, però, una parte dei derubati più altri abitanti del quartiere, si fecero coraggio e fecero dei prigionieri, fermando le macchine, pullman e perquisendo i viaggiatori per prendere coloro che avevano delle armi. Fatto sta che ne beccarono sette. Mio zio ad un certo punto parla con uno di questi ragazzi e gli chiede perché vanno a rubare…

Marco: ma la polizia….

Jocelyn: ma che polizia e polizia… di notte non si fanno vedere e molte volte neanche di giorno… hanno paura. Fatto sta che li beccano, li uccidono, li ammucchiano, li spargono addosso la benzina e li bruciano. Poi arriva la polizia che si rifiuta di portarli via e incita invece nel bruciarli. Per un periodo di tempo abbiamo dovuto andare via da quella zona perché la puzza era troppa.

Marco: a Lagos che vita facevi, oltre ad andare a scuola..

Jocelyn: in pratica ero quasi sempre in compagnia di mio zio e di mia sorella. Anche quando andavo al mare. A scuola mi portava mio zio alle 8.30 e uscivo alle 2 del pomeriggio. Mi piaceva che mi portasse in macchina.
Ma pensa te. Questa era la vita a Lagos che poi ho saputo che è tra le città più pericolose al mondo.
        Comunque alla fin fine riesco a fare l’esame e me ne ritorno a casa a Benin City.

In Africa


Marco: parlami un po’ di te, della tua famiglia…

Jocelyn: mi chiamo Jocelyn, ho 24 anni, sono la settima di 9 tra sorelle (8 compresa io) e un fratello. L’età delle mie sorelle va dai 18 ai 37 anni. Sono nata a Benin City nello stato di Edo State nel sud della Nigeria da Hellen mia madre e da Enaiho mio padre.
Quattro anni fa, mentre io ero già in Italia, è morta mia sorella Evelyn. Mio papà e mia mamma sono arrivati da un villaggio a circa una ora e mezza di macchina da Benin City, che si chiama Ewohimi che ho visitato una o due volte quando ero bambina. Mio padre faceva il poliziotto. È in pensione da 3 anni, mia madre fa la sarta. Siamo di etnia Ishan.
Tutti i figli, grazie soprattutto a mia madre, abbiamo frequentato le scuole, la primaria e la secondaria, sono tra tutte e due 12 anni di scuola, 4 di queste mie sorelle hanno frequentato l’Università.
Quasi tutte le mie sorelle lavorano. La prima sorella ha un allevamento di galline, la seconda insegna a scuola in quanto ha il diploma da maestra, la terza che ha appena finito l’Università è disoccupata. La quarta ha un laboratorio da sarta (ha imparato ovviamente da mia madre), la quinta, quella che è mancata qualche anno fa aveva un figlio che adesso ha 7 anni e l’abbiamo preso noi nella nostra famiglia, adesso studia, è molto intelligente ed è molto bello. Questa sorella aveva un laboratorio da parrucchiera. La sesta si è appena sposata e fa la casalinga, poi ci sono io e questa è la mia storia, l’ottavo è mio fratello, il quale attualmente non lavora e ha la ragazza incinta. Ma dimmi te, come faranno a mantenere il bambino?
Poi c’è l’ultima sorella di 19 anni che attualmente frequenta l’Università (e questo per i soldi che io mando giù).

Marco: quali sono tra i tuoi familiari i tuoi preferiti…

Jocelyn: non credo di avere delle particolari preferenze… siamo una famiglia molto unita, dove non corrono segreti, quando uno ha un problema se ne discute insieme per trovare la soluzione migliore, ovvero…. se proprio devo dire la mia preferita è la sorella con il negozio di sarta.

Marco: ma tra tuo papà e tua mamma…

Jocelyn: ah… mia mamma senz’altro, perché ha fatto di tutto per mandarci a scuola. Mio padre è un uomo molto tirchio, dal suo portafoglio non escono mai soldi. Senza mia madre, il suo lavoro da sarta, i suoi sacrifici noi figli non avremmo avuto la possibilità di andare a scuola, garantito. Preferisco di gran lunga mia mamma. La mamma è sempre la mamma.
        Pensa che siccome il figlio maschio non arrivava ha continuato a fare figli. Quel tanto che la famiglia di mio padre si era messo di mezzo per fare in modo che mio papà abbandonasse mia madre. Cosa che invece mio padre non fece.
Mia madre piangeva sempre, perché non riusciva ad avere il figlio maschio. Un giorno vennero a casa nostra in compagnia di una donna giovane, chiedendo a mia madre di andarsene, al che mio padre impugnò un machete e li cacciò di casa dicendo che lui era felice con mia madre.
Ad un certo punto, dopo aver cambiato casa, mia madre ebbe un grosso cambiamento. Non frequentava più la nostra chiesa. Aveva conosciuto una donna che praticava i voodoo, la quale gli aveva detto che con questa pratica lei avrebbe potuto avere tanti figli maschi.
Finalmente ad un certo punto il maschio arrivò. Dopo di me, e mia madre era felicissima.

Marco: ma tu credevi nel voodoo?…

Jocelyn: io non ci credo più. Considero quelle pratiche del tutto negative, anche se vedo che parecchi in Africa ci credono e lo praticano in diverse forme. Mia madre aveva fatto allestire una piccola camera in casa nostra dove teneva tutti gli amuleti. In famiglia salvo il mio fratello più piccolo nessuno di noi ci crede, compreso mio padre. Per esempio, mia sorella ha fatto due figlie e suo marito è contento e non vuole più avere altri figli. Così va bene e a me piace.

Marco: come avvengono i matrimoni..

Jocelyn: al periodo di mio padre e di mia madre i matrimoni erano del tutto combinati tra le famiglie, specie nel caso di diversa età tra la donna e l’uomo. Attualmente grosso modo è come qui da voi. C’è un periodo di fidanzamento, poi ci si presenta nella casa della famiglia per il fidanzamento ufficiale. Dopo di che sono le famiglie che decidono la data del matrimonio, sia quello civile che quello tradizionale. Le famiglie concorrono alle spese del matrimonio. Tra gli Ibo invece c’è l’usanza di “vendere” la propria figlia.

Marco: di che religione siete…

Jocelyn: siamo di religione cristiana (pentecostali) – ogni domenica tutti in chiesa e quando si mangia nell’unico piatto preparato per tutta la famiglia, prima si deve pregare per ringraziare Dio.

Marco: cosa significano quei segni che hai sulla faccia e sul corpo?…

Jocelyn: ha a che fare con la mia giovinezza. Quasi a tutti vengono fatti quei segni. Primo perché è un modo tradizionale di farti avere delle medicine che vengono prese nella foresta tra gli alberi, secondo perché è un segno di riconoscimento.

Marco: qual è il tuo nome in africano…

Jocelyn: io ho due nomi, il primo Emaiho che significa: “non ero lì, dove hanno fatto del male” e il secondo Emairo che significa: “non so cosa è successo, non ero lì, non sono una ficcanaso”.

I sogni di una ragazza africana

Marco: cosa sognavi da ragazza, quando eri in Africa…

Jocelyn: fin da bambina sognavo di fare l’avvocato. Mio padre invece mi diceva che ero come lui e avrei fatto il poliziotto. Ma a me non andava, perché sapevo che nella polizia c’era molta corruzione. Mentre fare l’avvocato oltre al fatto che mi piaceva, significava impegnarsi per difendere chi ne aveva bisogno.
        Da bambina mi aveva molto colpita una mia parente che era avvocato. Era molto conosciuta. In famiglia se ne parlava sempre bene e con ammirazione. A me sarebbe piaciuto poter essere fermata per la strada ed essere rispettata per la mia attività di avvocato.
        Mi sarebbe piaciuto visitare l’Europa, per esempio, a partire dall’Inghilterra dove sarei andata per fare la specializzazione da avvocato e poi tornare in Africa, aprire un mio studio.
        Evidentemente sognavo pure di trovare marito. Un marito premuroso che mi stesse vicino, che gli piace ridere, scherzare giocare con me. E fare come minimo quattro figli, due maschi e due femmine.
        Come vedi niente di così fantascientifico. Ero una delle tante ragazze di Benin City, molto semplice con dei sogni altrettanto semplici.

Che vita

Indice

  • I sogni di una ragazza africana;
  • In Africa;
  • Il mondo di Jocelyn in Nigeria;
  • L’ingaggio (per l’Italia);
  • In Italia;
  • I problemi;
  • Il lavoro da prostituta;
  • I clienti;
  • Gli uomini: Marco, Francesco, Massimo, Maurizio, Manlio, Paolo, Piero;
  • Le esperienze nei night club;
  • Il primo sillabario;
  • Le violenze;
  • I soldi;
  • Il mio mondo attuale, in Italia;
  • Marian;
  • Kevin;
  • Allen: un amore africano, in Italia;
  • Ancora semiclandestina;
  • Una amicizia conflittuale, un po’ incasinata..;
  • Epilogo.. fine della storia..;
  • La mia vita come.. cosa vorrei..;

    Presentazione

    A fine del 2007 avevo finito una intervista che mi fece Marco, un mio amico italiano. Mi era costata non poco, perché parlava della mia vita fino ad allora. Non una bella vita, visto che ero venuta in Italia dalla Nigeria per trovare un lavoro e mi sono vista sbattuta sulla strada a fare la prostituta. Comunque, dopo averla fatta (l'intervista) ho provato con Marco, di farla pubblicare. L'abbiamo mandata a parecchie case editrici, però alla fine non è venuto fuori niente. Adesso dopo quasi 4 anni, mi sono regolarizzata e sono felicemente sposata con un bravo italiano. Ho deciso così di poterla pubblicare su questo Blog, per fare conoscere una delle tante storie di ragazze che da Benin City in Nigeria sono venute in Italia per fare soldi e alla fine invece hanno trovato ben altro. Se avete tempo e voglia provate a dare uno sguardo a questa mia intervista e provate a scrivermi i vostri commenti.

    Un saluto da Jocelyn

    PS. è chiaro che se qualcuno vorrà darmi una mano per pubblicarla (es. con degli indirizzi di Case Editrici), lo ringrazierei molto.